PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

sabato 26 dicembre 2015

Il fratello di Al

Gabriele e Teresina, abitavano qui, in via Concilio, ad Angri, provincia di Salerno.
Via Concilio che oggi si presenta così.
Sinceramente non credo che a fine '800 - automobile a parte - fosse molto differente. Basta che facciamo un piccolo sforzo di fantasia, sostituendo, magari, l'auto con una carrozza.
Angri oggi non è una città particolarmente ricca: ancorpiù è facile immaginare che non lo fosse 120 anni fa.

Ma Gabriele, almeno, uno straccio di lavoro ce l'aveva: tirava su qualcosa facendo il garzone dal barbiere del paese. Spazzava per terra, affilava il rasoio e quando il capo lo permetteva faceva anche qualche barba. Ma non certo ai clienti importanti.
Aveva una bellissima fidanzata, Teresina, con la quale si sposò nel 1894. Che lavorava in casa: dalla mamma aveva imparato a fare cucito, mentre sua nonna le aveva insegnato l'arte del pizzo. E com'era diventata brava a fare i merletti per i corredi delle ragazze ricche del paese!
Una bella storia: quelle lì si sposavano con qualche "signorotto", e lei continuava a cucire, cucire, cucire... 
Accontentandosi delle loro briciole.

Gabriele erano mesi che discuteva con il padre Vincenzo e la madre Marzia: ed era sempre la stessa discussione. Lui era giovane, e come tutti i giovani scalpitava. 
Certo non aveva voglia di stare ad Angri per tutta la vita. 
E suo padre intuiva benissimo dove sarebbe andato a parare questo discorso.

E poi aveva sentito parlare tanto dell'America, dove tanti suoi compaesani se n'erano andati...

Ecco, appunto.

Pochi sapevano scrivere e chi era in grado si metteva a disposizione degli altri per farlo sotto dettatura.
E tutti scrivevano che l'America era un posto da sogno, dove si mangiava tutti i giorni, dove c'era lavoro per tutti, dove tutti erano allegri. 
Perché tutti diventavano ricchi! 
Tanto ricchi, dicevano quelle lettere, che le strade, in America, non erano come quelle del paese: in America le strade erano "lastricate d'oro!".

"Capisci, papà cosa dice chi è lì? 
D'oro! Dice che le strade sono d'oro! Che là ci sono talmente tanti soldi che le strade vengono lastricate non con le pietre, ma con l'oro!
Per la miseria, mica come qui al paese!".

Facile dunque immaginare gli occhi rassegnati di Vincenzo e Marzia di fronte all'ingenuo entusiasmo, alla testardaggine, alla furia, del loro Gabriele.
Che nel frattempo, oltretutto, aveva regalato loro anche un nipotino, battezzato proprio con il nome del nonno.
Vincenzino, che i nonni si sono potuti godere poco.

Perché alla fine, Gabriele l'ebbe vinta. 

Barba dopo barba, merletto dopo merletto, e anche grazie a un po' di risparmi che papà Vincenzo era riuscito a mettere da parte, i due ragazzi riuscirono a racimolare i soldi del biglietto per l'America.

Gabriele, Teresina e Vincenzino un giorno del 1894 si imbarcarono nella motonave Werra ("ibrida", verrebbe definita oggi, visto che andava anche a vela), che a vederla oggi non è che dia tanto affidamento...






"Dall'Italia noi siamo partiti, 
siamo partiti col nostro onore,
trenta giorni di macchina a vapore
e in America noi siamo arrivà...".

Sui registri della nave compaiono ancora oggi i loro nomi: 

Raiola Teresa, anni 27.
Capone Gabriele, anni 29.
Capone Vincenzo, anni 2.
 
La famiglia Capone per un breve periodo abitò in Canada, per poi trasferirsi negli Stati Uniti, a Nuova York. 
Si stabilì a Brooklyn, con Gabriele e Teresa che facevano l'unico mestiere che conoscevano: lui il barbiere, lei la sarta. E la mamma.
Madre non solo del piccolo Vincenzo, ma anche degli altri otto figli che nel frattempo nacquero in America: Salvatore, Raffaele, Alfonso, Giovanni, Alberto, Matteo, Rosa e Mafalda.
Eccolo qui, il piccolo Alfonso, fotografato con la madre Teresa:
Chi ha anche solo un figlio può facilmente immaginare quanto sia difficile tirarne su "per bene" nove. Soprattutto se si abita nella New York di inizi del '900, e se nel frattempo padre e madre sono impegnati al lavoro. 
 
I loro ragazzi, per la verità, un po' a scuola, ci vanno. Ci va Vincenzo, e ci vanno anche gli altri maschi. Ma, in effetti, non è che studiarono molto.
Alfonso, in particolare, più che a scuola se ne stava tutto il giorno in giro per le strade di Brooklyn. A bighellonare e far bravate, che giorno dopo giorno, diventarono sempre più pericolose
Eppure pare che a scuola Alfonso non andasse affatto male.
Era intelligente, non studiava molto ma facendo anche solo un po' d'attenzione in classe imparava presto e il sufficiente, dicevano i professori della scuola alla quale Gabriele e Teresina lo avevano iscritto.
 
Ma fuori, le tentazioni, erano molte.
Troppe.
Suo inseparabile compagno di scuola e di avventure alla  "Public School 7 Abraham Lincon", proprio dietro Etna st. a Brooklyn, era un ragazzo anche lui di origine italiana: si chiamava Salvatore Lucania, ed era nato a Lercara Friddi, provincia di Palermo. 
Più che "compagni di scuola" sarebbe giusto dire che i due si erano "conosciuti", a scuola, visto che stavano più in strada che in classe.
La storia racconta che l'amico Salvatore iniziò la sua carriera criminale assai presto, fra i banchi, estorcendo a ciascuno dei suoi compagni delle elementari un centesimo di dollaro al giorno.
A dieci anni, per Salvatore arrivò la prima condanna penale: quattro mesi di riformatorio per furto in un negozio.
A diciotto anni, sei mesi di carcere per possesso e spaccio di eroina e morfina. 
Eccolo qui, nella foto segnaletica di diciottenne che sembra già uomo fatto.
Qualche anno dopo decise di fare domanda per il cambiamento del nome perché - diceva - il suo "Salvatore Lucania" "sembrava troppo un nome da donna". 
All'anagrafe, dunque, si fece registrare con il più maschile "Charles Luciano".
A 32 anni, durante un regolamento di conti fra bande rivali, Salvatore Lucania (anzi, Charles Luciano) ebbe la peggio, quasi finendo secco, colpito da una decina di devastanti coltellate: ma riuscì a sopravvivere. 
E fu da quel momento che tutti i suoi amici iniziarono a chiamarlo "fortunato""Luciano fortunato". 

Esatto,"Lucky Luciano".
 
La "carriera" dell'amico Alfonso non fu da meno: anche se a scuola pare non andasse affatto male, il problema erano le compagnie che frequentava fuori. 
E così dalle estorsioni a colpi di un centesimo ai compagni di scuola, un giorno il figlio di Gabriele e Teresina fece l'inconsapevole "grande salto" stendendo a terra una professoressa a pugni.
La storia non ci racconta il perché.
So per certo, però, che quello fu il suo ultimo giorno di scuola alla PS7.
A 14 anni, Alfonso si trovò così a lavorare: prima in una fabbrica di caramelle, poi come guardiano-buttafuori in una sala da "bowling".
Ma per tenersi "in allenamento", nel tempo libero continuava a frequentare diverse bande di giovani criminali di Brooklyn.
Dove Alfonso veniva chiamato da tutti semplicemente con l'abbreviazione del suo nome: "Al".

Esatto, "Al Capone".
A 18 anni, il giovane Al Capone venne assunto come buttafuori in un bar di Coney Island: bar che in realtà una copertura per un bordello, a New York illegali.
Due anni dopo, il primo omicidio: quello di un piccolo malavitoso connazionale, Tony Perotta, fatto fuori perché pare si fosse rifiutato di pagare un debito di gioco.

Ma anche il giovane Al Capone, un giorno, se la vide brutta. Come quando venne preso a rasoiate in faccia da Franco Galluccio, detto Frank, fratello di una donna alla quale lui aveva rivolto commenti decisamente poco galanti. 
Sulla sua guancia sinistra, per sempre, rimasero profonde cicatrici che gli procurarono il soprannome con il quale passò alla storia del crimine americano: "Scarface", "faccia scarnificata", "faccia sfregiata".
Nonostante questo, per il fascino tenebroso che suscitava (o per i soldi che aveva...) era sempre circondato da donne. Alle quali non sapeva rinunciare.
Il suo punto debole.

A centinaia finirono nel suo letto (o lui nel loro...): altolocate signore che volevano sentire il brivido di essere desiderate clandestinamente da un delinquente, ma comunque elegante, romantico, sempre educato e dai modi garbati. 
O donnine dei bordelli dove lavorava, che erano sempre a sua disposizione, soprattutto quando dalle sue tasche vedevano spuntare bigliettoni di vario taglio. 

La "genialità" (criminale) di Al Capone fu quella di intuire che soltanto una rigida separazione fra la contabilità legale e quella proveniente dalle attività illecite, avrebbe permessso lunga vita alla sua organizzazione.
Che nel frattempo stipendiava ogni mese centinaia di ex miserabili italiani che così sentivano di dovere tutto al capo, e che in cambio del benessere finalmente conquistato, gli giurarono fedeltà eterna, promettendo di proteggerlo senza tentennamenti. 
E infatti, Al riuscì a scampare ad una decina di agguati di bande rivali. 

Ormai lui ne era certo: nemmeno la Polizia l'avrebbe mai beccato.

Nel frattempo anche altri giovani della famiglia Capone, femmine comprese, si misero nei pasticci. 
Raffaele Capone, detto "Ralph Bottles" ("Raffaele Bottiglia") era il responsabile del commercio clandestino di alcolici. Affari immensi, visti i prezzi raggiunti durante il proibizionismo.
Salvatore Capone, detto "Frank", si occupava delle bische clandestine controllate dalla famiglia e del pizzo ai danni di esercizi commerciali. Frank che poi morì in un conflitto a fuoco con la polizia. 
Mafalda Capone sposò John Maritote, fratello minore di Frank "Diamond" Maritote, boss italoamericano di una organizzazione che così si affiliò a quella di Al Capone.

Un matrimonio al quale il fratello Al non potette partecipare, perché latitante.
Mafalda: che il giorno del matrimonio indossava un magnifico abito bianco con uno strascico di sette metri e mezzo. 
Per scusarsi della sua assenza forzata, Al ordinò che il passaggio della sorella in chiesa fosse preceduto dal lancio di 400 rose rosse.


Insomma, tutto questo - anzi, ben prima che si arrivasse a tanto - a Vincenzo, il fratello maggiore, non piaceva. 
Per nulla.

E ancor meno riusciva a sopportare serenamente il fatto che il padre Gabriele e la madre Teresa, peraltro impegnati a sgobbare come matti, non fossero riusciti, poveretti, ad intervenire in tempo per mettere in riga i loro figli. 

Fu così che a 16 anni Vincenzo Capone capì che l'unica soluzione per tenersi fuori da quelle porcherie era allontanarsi dalla famiglia, da quell'ambiente.
Andandosene da casa.
 
Esatto: a 16 anni.

Fu così che un giorno Vincenzo saltò su un treno lasciandosi alle spalle New York, Brooklyn, Little Italy, gli italiani, le bande del fratello, la malavita, i gangster, la mafia, i bordelli, l'alcol clandestino e le pistole.
 
Mmmh...
No, le pistole, in effetti, no.
 
Vincenzo se ne andò cercando fortuna il più lontano possibile da quell'ambiente, il più lontano possibile da New York. 
E nel 1908, duemila e trecento chilometri potevano essere considerati a buon titolo il "più lontano possibile".

Pare che quando arrivò nella cittadina di Homer, in Nebraska, (oggi un pugno di case con nemmeno 600 abitanti, possiamo immaginare come fosse all'inizio del secolo scorso...) avendo all'istante la sensazione di essere nel posto "giusto", Vincenzo saltò giù dal treno in corsa.
Scuro di pelle, con capelli e occhi neri (come la maggior parte degli italiani del sud) Vincenzo si guardò bene dal dire di essere italiano d'origine, preferendo spacciarsi per "mezzosangue": figlio di una relazione clandestina tra un bianco e una nativa americana. 

Né, tantomeno, raccontò in giro di essere un "Capone".
Decise, infatti, di cambiare subito nome e cognome: comprensibile, visto che negli Stati Uniti, in quel periodo, chiamarsi di cognome "Capone" significava essere guardati male, dover rispondere a troppe domande e andare incontro ad un sacco di grattacapi. 
E siccome a lui piaceva da morire un attore del cinema del tempo, William Surrey Hart, appena arrivò in Nebraska decise che quello sarebbe stato il suo nuovo cognome. 
Vincenzo Capone, addio: d'ora in poi lui sarebbe stato Richard James Hart

Poi Vincenzo (anzi, Richard) prese lezioni di dizione per perdere l'accento "broccolino", l'accento di Brooklyn, troppo italo-americano.
Poi trovò lavoro.
Un lavoro vero e onesto.
Venne assunto in un circo, dove imparò ad usare bene le pistole e a giocare con esse. Venne soprannominato "Jimmy two guns" "Jimmy due pistole", per la sua capacità di maneggiarle con abilità.
Evidentemente una dote "di famiglia".


In particolare lui faceva impazzire il pubblico quando lanciava, facendole roteare in aria, le sue due Colt che poi riprendeva al volo per sparare.
Facendo centro, ovvio.
Quando lasciò il circo, continuò a viaggiare nel West, e abitò in alcuni villaggi di nativi americani, Sioux e Cheyenne soprattutto: condividendo la loro vita quotidiana, conoscendo "da dentro" la loro cultura e imparando a parlarne correttamente la lingua.

E mentre anche nel West arrivava l'eco delle imprese criminali di Al Capone e della sua banda, lui - il fratello che ne aveva ripudiato il cognome - si arruolò nell'esercito americano partecipando alla Prima Guerra Mondiale.
Dove la sua capacità di usare fucili e pistole con sorprendente abilità e precisione venne decisamente apprezzata: tanto che fu nominato addestratore e comandante di una compagnia di "tiratori scelti" dell'esercito americano.

Così mentre il fratello Alfonso Capone, detto Al, controllava prima mezza New York e poi quasi l'intera Chicago dandoci dentro con il contrabbando di alcol, lo sfruttamento della prostituzione, le bische clandestine, il pizzo, la corruzione di poliziotti, l'elezione di sindaci e deputati anch'essi corrotti, le minacce a colpi di devastanti incendi ai danni di avversari politici, le rapine, gli scontri a fuoco con le bande rivali o con le forze dell'ordine, il traffico d'armi e gli omicidi (gliene vennero attribuiti svariate decine come esecutore materiale - la sua arma preferita era la mazza da baseball - e circa cinquecento come mandante), Vincenzo Capone, il di lui fratello,(alias Richard James Hart) entrò come Ufficiale nell'esercito degli Stati Uniti, che lo inviò in Francia con il grado di luogotenente, a combattere la Prima Guerra Mondiale. 
Terminata la "Grande Guerra", Richard "Vincenzo Capone" tornò in Nebraska, nella sua Homer.

Dove, un giorno del 1919 salvò una famiglia da una alluvione.
Accadde che il signor Winch, la moglie e la loro giovane (e bella) figlia Kathleen stavano praticamente per morire affogati, quando lui, risoluto e coraggioso, li salvò ad un passo dalla morte: proprio nel momento in cui tutti avevano l'acqua letteralmente "alla gola". 
Un atto di coraggio che gli fece guadagnare non solo la nomina di sceriffo della città, ma anche quella di vice sceriffo dell'intera Contea di Dakota.

E forse fu lo sguardo riconoscente - e soprattutto innamorato - di Kathleen a farlo capitolare. 
Perché da quel momento i due giovani misero su famiglia.
E quattro figli.

E mentre il fratello cattivo, Al Capone, da Chicago guidava la più grande organizzazione criminale americana dedita alla produzione e allo spaccio clandestino dell'alcool, il fratello buono, lo sceriffo Vincenzo Capone, 2300 chilometri più in là, divenne poi anche nientemeno che agente federale dell'Us Indian Service.

Suoi compiti: tenere lontani dalle riserve indiane del Nebraska l'alcol e i delinquenti che lo commerciavano clandestinamente.

Eccolo qui sotto, il nostro Vincenzo, con un amico capo indiano.
Fu in questo periodo che lo sceriffo Vincenzo Capone arrestò 20 assassini latitanti che scorrazzavano in Nebraska, e centinaia di distillatori e spacciatori di alcol illegale.

Nel 1927, Vincenzo Capone - o meglio, l'ex luogotenente dell'esercito Richard James Hart - arriverà a fare, seppur per qualche settimana, nientemeno che la "guardia del corpo" del 30° presidente degli Stati Uniti Calvin Coolidge in visita in South Dakota. 
Il Governo Federale aveva bisogno di un uomo onesto, integerrimo (e che avesse una buona mira...): e allora chiamarono lui.

In quegli anni - e furono 55 anni - i fratelli Vincenzo e Alfonso non si incontrarono mai.
In verità ci fu - quando Al Capone venne arrestato - un tentativo della sua difesa di chiamare a testimoniare in suo favore il fratello, fedele servitore dello Stato e difensore della Legge: invito che cortesemente Vincenzo respinse al mittente. 

Vincenzo Capone incontrò il fratello Alfonso Al Capone solo negli ultimi giorni di vita del gangster, che alla fine, com'è noto, venne processato non per gli omicidi e tutto il mal'affare di una vita, ma per una stupida questione di contabilità e di evasione fiscale.
Stupida sì, ma che gli costò ben 23 capi di imputazione.


Ad incastrarlo, il lavoro di una squadra di agenti federali del Dipartimento del Tesoro di Chicago, chiamati "Gli Intoccabili"
Il processo a carico di Alfonso Capone durò sei giorni e la sua difesa tentò di tutto, pur di salvarlo. 
Riuscì persino a corrompere, a suon di bigliettoni, tutti i giurati
Quando il giudice lo intuì, ordinò agli uscieri di andare nell'aula vicina e di scambiare le due giurie.

Al Capone impallidì, chiedendo soccorso con gli occhi al suo avvocato. 
Che scosse la testa, rassegnato.

Per Alfonso Capone, che non aveva neppure quarant'anni, non ci fu scampo. Venne condannato al massimo della pena: undici anni di reclusione
Che scontò prima nel carcere di Atlanta, in Georgia, lontanissimo da New York (più di 1200 chilometri), poi in quello - ancor più distante, 4600 chilometri - di massima sicurezza di Alcatraz, nella baia di San Francisco, in California.

Quando arrivò ad Alcatraz, come possiamo vedere nella fotografia segnaletica qui sotto, sorrideva ancora, Al.
Ma ad un certo punto accadde qualcosa che non aveva certo previsto: mentre era in carcere, infatti, il Parlamento americano abolì la legge sul "proibizionismo" dell'alcool, che gli aveva permesso di arricchirsi a dismisura arrivando al vertice della malavita americana.

Fu a quel punto che, nel supercarcere di Alcatraz, iniziò il declino di Al Capone.
Malato di sifilide - contratta in età giovanile da qualcuna delle sue centinaia di amanti - Al ormai alternava (pochi) momenti di lucidità ad altri (e molti) di follia o di totale assenza. 
Era irriconoscibile.

L'unica concessione delle autorità, fu il permesso di arredare la cella come volesse.
E lui, che odiava il carcere e la sua condizione di carcerato, volle che la sua stanza fosse il più possibile simile ad una camera d'albergo.

Era esattamente così: proprio come si presenta oggi ai visitatori di Alcatraz.


Furono sufficienti pochi anni nel supercarcere di Alcatraz per sgretolare la sua arroganza, per ridurre a zero la sua superbia, per annientare il suo stato psicologico: lì dentro, nella sua "cella dorata" ma senza potere, Al Capone era solo un detenuto, un uomo con gli anni distrutto, annullato.
Si sentiva - ed in effetti era - un Re deposto

Deposto non solo dalla legge, ma anche all'interno del mondo della malavita carceraria. 
Come quando non accennò alcuna difesa di fronte ad un detenuto che lo aggredì a colpi di forbici; fortuna che le guardie intervennero prontamente. 

O come quando, un'altra volta, ugualmente non reagì dopo che un altro recluso, al termine di una discussione con lui, se ne andò sputandogli addosso.
Sputò in faccia a lui.
Ad Al Capone.


Ormai, il più temuto, venerato, arrogante, spietato boss assassino della storia americana di inizio '900, non esisteva più.

Il 19 novembre del '39 l'ex boss Al Capone venne scarcerato in anticipo a causa delle sue precarie e gravi condizioni di salute.
Si ritirò così, in preda alle continue tremende crisi di demenza, nella sua villa di Miami, in Florida.

Dove, nel 1947, Vincenzo Capone - il fratello buono - andò appunto a trovarlo quando ormai lui era quasi in fin di vita
Nessuno fu testimone del loro incontro, durato qualche ora.

Alfonso "Al" Capone morì a 48 anni nella sua villa di Palm Island: non resse al progressivo deterioramento delle sue facoltà intellettive provocato dalla sifilide e dalle ripetute crisi di assenza, a cui seguirono un ictus e una polmonite.
Morì il 25 gennaio 1947.

E' seppellito nella sezione cattolica del Mount Carmel Cemetery di Chicago.
Sulla sua lapide soltanto il nome e un epitaffio: "My Jesus Mercy"
"Abbi pietà, Gesù mio".

Vincenzo Capone, dopo l'incontro con il fratello Al, tornò a fare lo sceriffo nella sua Homer, dove morì a 60 anni per un infarto.

La villa di Miami Beach, al 93 di Palm Ave. in riva all'Oceano, dove Al Capone passò l'ultima parte della sua vita - con il suo parco tropicale con spiaggia privata sull'Oceano, la sua piscina, i suoi marmi bianchi ovviamente italiani, i suoi saloni, la sua grande cucina, le sette camere da letto con i sette bagni - negli anni è passata di mano in mano a numerosi proprietari.

Gli ultimi che l'avevano rilevata l'hanno perfettamente restaurata - spendendo qualcosa come 1.750.000 dollari di ristrutturazione - e rivenduta alla fine del 2015.











La villa del più grande boss della malavita italiana in America è stata recentemente comprata da Carmine "Mino" Raiola, il manager del calcio nato a Nocera Inferiore. 

Dopo una trattativa durata soltanto 72 ore, il contratto è stato firmato per 10 milioni di dollari (poco più di 8 milioni di €uro) proprio nella settimane successive il passaggio del calciatore Paul Pogba - di cui Raiola è appunto manager - dalla Juventus al Manchester United.
 
E vi ricordate come si chiamava la mamma di "Al Capone", della quale accennai all'inizio del racconto? Raiola, appunto.
Di Alfonso Capone, infatti, il manager del calcio di oggi è un lontano discendente.  
Che acquistandola fece l'ennesimo buon affare, visto che nell'aprile 2018 la mise nuovamente in vendita, questa volta per 15 milioni di dollari: becinque milioni in più di quanto l'avesse pagata solo tre anni prima.  

Una villa che, davvero, è l'ultimo inconsapevole tesoro di Alfredo "Al" Capone.




© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

lunedì 21 dicembre 2015

Minacce pre-elettorali...

Stati Uniti, in attesa della campagna presidenziale...

"Datemi un dollaro, altrimenti voto Trump"


Un genio!
(Foto di Liberale Masi. Grazie a Luca Lisanti)

domenica 20 dicembre 2015

La corsa di Kathrine

Doveva mettersi in testa che per lei, quella, sarebbe stata una corsa come un'altra.
Uguale alle tante corse alle quale lei aveva fino ad allora partecipato.

In fondo si trattava solo di correre. E basta.
Correre, correre...

"Insegnò alla sua giovane figlia 
che l'unica cosa di cui aveva bisogno
era andare avanti.
E allora le insegnò a correre.
Corri, piccola, corri...

Run, baby, run...".

Ok, lo so...
La canzone di Sheryl Crow non fu scritta per la protagonista del racconto di oggi. E poi Kathrine non nacque il 22 novembre 1963, "... il giorno della morte di Aldous Huxley", come il personaggio citato dalla canzone. 

Lei, Kathrine Virginia Switzer - questo il suo nome completo - nel novembre del '63 era già bell'e che adulta. 
E nella nostra storia - e non solo, anche nella Storia americana - ci entrò quattro anni prima.

E' bene però fare ancora qualche passo indietro, amici.
Dobbiamo tornare a quando lei, figlia di un ufficiale americano, il 5 gennaio 1947 nacque nell'ospedale della base Usa di Amberg, nell'allora Germania Occidentale.
Arrivò negli Stati Uniti due anni dopo, quando il padre venne destinato a svolgere il servizio "a casa", a Fairfax County, in Virginia, 29 chilometri dalla capitale americana, Washington DC.

E qui, la nostra amica, ci ha dato dentro con lo sport, così come può ogni adolescente americano, volente (o nolente).
Iniziò, chissà perché, con l'hockey su prato, poi con il basket e poi con la corsa...

"Run, baby, run...".

E ha iniziato a correre sul serio: d'altronde, il motto del Lynchburg College che lei frequentava, è assai ambizioso. "Above and Beyond", "Più in alto e oltre".

Sarà anche a pagamento (lo è, infatti) ma vi invito ad essere prudenti nel guardare anche queste tre foto. Potrebbe venirvi un colpo.
Fondato nel 1903, in questo College lavorano 157 insegnati, e a disposizione dei circa 2500 studenti che lo frequentano vi sono attrezzature per svolgere adeguatamente dieci discipline sportive maschili e undici femminili...

(Ma vi immaginate come gli studenti americani si divertono da quelle parti? Avrei fatto sport persino io, cavolo!). 

Chissà perché vedendo queste immagini immediatamente mi è venuto in mente quel che Giovanna, la mia compagna, mi racconta sui suoi anni di scuola, durante i quali (e non si tratta del secolo scorso...) non è mai stata in una palestra.
Semplicemente perché nel suo liceo, la palestra, non c'era. 
O meglio, c'era, ma non era agibile... Così come quella precedente, quella della sua scuola media.

Torniamo in America, và...

Insomma, è sulla pista della foto qui sopra che Katherine si allena, fino a perdere il fiato, fino allo sfinimento.

Finito il college, nel '66 entra alla Syracuse University, scegliendo la facoltà di "Giornalismo sportivo".
Università di cui allego soltanto due foto...
E anche qui, Kathrine, oltre a studiare giornalismo, ci da dentro con lo sport. E qui emerge quello che sarebbe stato il suo punto forte: la resistenza. 
E allora vai con lo sci di fondo e allenamenti sulle lunghe distanze.

Era la gioia del suo allenatore, Arnie Briggs, (che di professione, in realtà, faceva il postino del College) il quale aveva alle spalle la partecipazione, per ben 15 volte, ad una delle più classiche marce americane: la "maratona di Boston", che commemora l'inizio della guerra d'Indipendenza americana, e che si svolge ogni anno dal 19 aprile 1897.

La nostra Kathrine correva talmente forte da trovarsi ad essere spesso sfidata dai colleghi maschi, partecipando alle loro gare (ma solo in allenamento...) e, a volte, vincendo.
E loro un po' la mettevano sportivamente sul ridere, un po' erano visibilmente seccati da 'sta cosa.
Dall'essere ogni tanto battuti da una donna. 

L'anno dopo Kathrine si sentì matura, pronta a fare sul serio. Decise dunque che era venuto il momento di correre a Boston. 
Alla maratona si iscrisse dichiarando che correva per il "Syracuse Harriers Athletic Club" e firmando il modulo semplicemente "K.V. Switzer", il suo cognome preceduto dalle sue iniziali.
Con il suo suo ragazzo, Tom "Big" Miller, che ritirò anche la pettorina di lei: quella con il numero 261.

Perché le donne, fino ad allora, non avevano mai partecipato ad una marcia di quel tipo. A loro, fino ad allora, venivano riservate gare più brevi, "solo per donne", competizioni ritenute meno faticose.
E dunque niente donne alla Boston Marathon; anche se il regolamento della gara si limitava a specificare soltanto che la competizione era aperta ad atleti di tutte le razze.
Delle donne non ne contemplava la presenza, ma neppure la escludeva.
Ma era stato sempre così: dal 1897 non c'era mai stata nessuna donna a correrla.

Il giorno della gara, la presenza di una donna fra gli atleti maschi (e in mezzo ad un gruppo di corridori maschi, i suoi amici, le sue "guardie del corpo") non passò inosservata.
Un giorno in cui, oltretutto, faceva un freddo cane: nonostante fosse aprile (era il 19 aprile 1967), nevischiava, infatti, a Boston.
Ma nonostante il gelo, lei galoppava, galoppava...

Eccola qui, fiera, correre quasi senza fatica, circondata dal cordone di sicurezza dei suoi amici.
Eccola, con quella donna del pubblico che corre per qualche istante insieme a lei, sorridendo della sua provocazione, della novità, della loro conquista...
                                           
Il pubblico rimase sorpreso: le donne urlando di gioia, i maschi dividendosi fra chi applaudiva e chi - una minoranza - la fischiava o le urlava di "andare a casa, a fare la calza"... 
Un'occasione ghiotta per i fotografi, che accorsero e iniziarono a scattare come matti, in mezzo a quella confusione che cresceva passo dopo passo.

Furono proprio queste urla ad attirare l'attenzione del direttore di gara, John Duncan "Jock" Semple, ex maratoneta di origine scozzese e fisioterapista, che seguiva l'evento da un pulmino.
E che appena scorse la donna ("Ma che diavolo ci fa una donna nella mia gara???"), balzò giù dal mezzo correndo verso di lei e intervenendo con forza, con l'intenzione di trascinarla via.
Le si precipitò addosso urlandole, pare, "Vai all'inferno! Via! Fuori dalla mia corsa!"

Una scena ripresa, scatto dopo scatto, dai fotoreporter presenti.

Guardate: nel primo si vede Katherine che si gira per vedere chi stava urlando, chi le stava dando fastidio... 

Nello stesso istante il marito Tom - che correva al suo fianco con il pettorale numero 390 - si girò anche lui verso quell'uomo.

Poi il secondo scatto:
quello che immortala la reazione di Tom, proprio quando il Direttore di gara quasi ce la stava facendo a trascinare via Kathrine.
Che con una smorfia continuava a correre.

"Run, baby, run...".
Il terzo scatto fissa l'intervento risolutivo di Tom, che con uno spintone ben assestato, forte dei suoi 106 chili di muscoli, riuscì a neutralizzare, sbattendolo fuori dalla corsa, il Direttore di gara John Semple.

Con Tom che in quell'istante urlò alla moglie: "Run like hell!!", "Corri via! Corri come se fossi all'inferno! Corri, baby, corri...".

"Run, baby, run...".

Kathrine Switzer terminò la corsa con il tempo di 4 ore e 20 minuti: arrivando con quasi un'ora di anticipo da un'altra donna che partecipò alla gara senza registrarsi.

Il piccolo grande atto di coraggio di Kathrine aprì un varco, ma la Maratona di Boston impiegò cinque anni ad adottare la rivoluzionaria decisione di accettare al suo interno anche le concorrenti donne. 


Con John Semple, il direttore che cercò di cacciarla dalla Maratona di Boston, Kathrine fece pace qualche anno dopo, quando entrambi si fecero fotografare abbracciati al termine di una competizione.
Lui si giustificò dicendo di essersi soltanto limitato ad applicare il regolamento, e infatti successivamente ha sempre sostenuto con forza la presenza delle donne nelle gare analoghe.


Kathrine Switzer, poi, vinse ancora: la maratona di New York nel 1974, la maratona di Boston nel '75, dove si tolse addirittura la soddisfazione di arrivare seconda assoluta, correndo in 2 ore, 51 minuti e 37 secondi. Ovviamente prima fra le donne e seconda solo al vincitore maschio.

John Duncan "Jock" Semple morì nel marzo del 1988 per un doppio tumore, al fegato e al pancreas. 

Kathrine Switzer continuò a lavorare come giornalista e commentatrice sportiva, incarico che ricoprì per la ABC per le Olimpiadi di Los Angeles e fino a quando non andò in pensione.

Raccontò la sua storia nel 1997 in un libro e in questi anni ha ricevuto numerosi premi e onoreficenze, continuando a correre a livello amatoriale. 
Anche per tenersi in allenamento per il 2017, quando a 70 anni correrà ancora alla Maratona di Boston. 
Per festeggiare il 50° anniversario del suo piccolo atto di ribellione.

Riascolto continuamente, mentre scrivo, "Run, baby, run".

Porca miseria, una delle mie canzoni preferite (maledettamente adottata come musica da un vecchio spot dell'Aperol...) che parla di "sentirsi a proprio agio con gli stranieri" e che cita addirittura Aldous Huxley, lo scrittore inglese che seppe, a mio parere, descrivere meglio - ed era il 1932! - la differenza fra l'America e l'Europa.

Huxley, che nelle sue "Impressioni di viaggio" notava che per un turista americano il maggior fascino di un viaggio in Europa consiste, forse, in quella specie di stordimento che sente di fronte alla grande concentrazione di storia che c'è nel Vecchio Continente rispetto alle sue tutto sommato piccole dimensioni.

Mentre un europeo, "sentendo su di sé il peso oppressivo di un indiscutibilmente splendido, ma spesso fatale, passato" , in un Paese come l'America è come se si sentisse più "leggero" e più "libero", visto che in America "la Storia è tanto immensamente esigua, quanto immensamente enormi sono le sue dimensioni geografiche".

Cari amici di Aria Fritta: stavo scrivendo che si tratta di "un'altra storia".
E invece no: trovo che in queste parole vi sia la risposta a molte delle nostre irrazionali sensazioni irrazionali che sentiamo quando stiamo in America.

Tutt'altro che un'altra storia, dunque...

"Sua madre credeva 
che ogni uomo potesse essere libero, 
così sua madre salì sempre più in alto
e suo padre se ne andò a Birmingham
per cantare forte canzoni di protesta.
Corri, piccola, corri...

Run, baby, run..."

Non so se Kathrine Switzer abbia mai cantato fra sé e sé, durante una delle sue tante gare, questa canzone.
Né so se abbia mai giocato al Lotto nelle sue varie forme il suo numero, il 261, "quel" numero, il numero che quel 19 aprile del 1967 venne assegnato a quel vago nome "K.V. Switzer".

Ma so che, da allora, ad ogni corsa a cui si iscrive - anche oggi che ha 68 anni magnificamente portati (basta guardare la foto qui sotto...) - lei corre sempre con quel numero.

Con il suo 261.




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