PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

giovedì 25 settembre 2014

L'America vista da loro...


Il gioco è iniziato con la tiritera dei dieci libri che più hanno lasciato un segno dentro di noi, e poi - via via - si è trasformato, allargandosi.

Qualche expat (gli espatriati, le espatriate) si è poi divertito/a a unirsi a questo gioco, parlando delle differenze che ha trovato fra l'Italia e il nuovo Paese che lo ospita.
E allora ho voluto chiedere ad un po' di amici italiani di età differenti, e che vivono negli Stati Uniti, di regalare a tutti noi di Aria Fritta un quadro degli Usa, un'opinione sulla loro vita negli Usa, da un punto di vista "italiano".


Insomma, la domanda che ho posto è stata:

Quali sono le cose che più ti hanno colpito degli Usa e che ti hanno lasciato il segno?


Renata




















1) Il profondo rispetto delle regole, il senso civico. 
E' la prima cosa POSITIVA che è saltata all’occhio mio e dei miei figli: che abbiamo trovato qui.
In auto tutti rispettano il Codice della Strada, i limiti di velocità;
non vengono buttate cartacce in giro, i marciapiedi non sono costellati di “ricordini” dei cani, il verde pubblico (giardini e parchi) è rispettato e ben tenuto
E’ una cosa che, tornando in Italia ogni anno, noto sempre di più.

2) Le bandiere. Sono OVUNQUE. 
Davanti alle case private, davanti ad ogni edificio pubblico, c’è sempre una bandiera americana che sventola. La ritengo una cosa positiva perché fa capire il rispetto e l'amore che gli Americani hanno per il loro Paese

2bis) L’inno nazionale
Noi italiani lo sentiamo solo in occasione di partite della nazionale; qui viene cantato all’inizio di ogni incontro sportivo. Anche durante la finale (qualsiasi sia lo sport) dei ragazzini di paese.

3) Gli spazi immensi
A parte Manhattan, a New York, - che sorge su una penisola e quindi ha spazi limitati - e forse anche San Francisco, la vera America sorge, vive e si sviluppa in ampi spazi: villette mono-familiari, edifici bassi, strade larghe, prati, giardini, parchi, interi boschi ben curati in città o appena in periferia. 
A perdita d’occhio...
I lati negativi

4) L'offerta, in continuazione, di junk-food, di cibo spazzatura, che provoca un'obesità dilagante. 
Io magra non sono: proprio no. Ma qui IO SONO magra. 
E quello che noto è che più è basso il ceto, più sono sopvrappeso. Questo perché costa meno andare a mangiare patatine fritte e hamburger, che farsi il pasto a casa.

5) La superficialità delle relazioni
Anche se questo non l'ho capito subito, devo ammetterlo, ma solo dopo un po’ che ero qui. 
Qui non è difficile far nascere nuove relazioni (gli americani sono molto gentili e cordiali): ma è difficile far crescere e mantenere salde, queste relazioni.

6) Gli americani non camminano.
Corrono, fanno tanti sport, ma non camminano
Addirittura, quando ti allontani dal “downtown”, dagli isolati dove sorgono gli uffici del centro, non esistono nemmeno più i marciapiedi. 
E’ tristissimo.

Giorgio



1) Da emigrante italiano negli Usa, la prima differenza che mi viene in mente è la precarietà del lavoro.
Paradossalmente, e al contrario di quel che si pensi, c'è molta meno precarietà negli Stati Uniti
Pur essendoci condizioni e regolamentazioni sul lavoro diverse dall'Italia, il trattamento della persona è decisamente differente, e la differenza credo sia tutta in favore dell'America.

2) Negli Stati Uniti c'è più rispetto per la legge e per la cosa pubblica da parte dei cittadini. 
Ci si sente consapevolmente più coinvolti, quando si va a votare.

3) La naturalezza nei rapporti multietnici e multiculturali. Vivendo in America si ha la consapevolezza che le distanze della Terra, tra i popoli, sono molto piccole.

4) Negli Stati Uniti si ha la sensazione che tutto sia ancora da fare, da dire, mentre in Italia sembra che tutto sia stato già fatto e non c'è più nulla di nuovo da dire.
In America ho la sensazione di vivere il momento, mentre in Italia il contatto con la realtà mi sembra molto relativo.
In Italia ci sono troppi riferimenti al passato e troppa burocrazia.

5) In America la fila si rispetta, e qui i diritti e i doveri non si discutono.

6) L'Italia parla a se stessa: meriti e bellezze appartengono alla natura e al passato degli italiani, quando italianità significava qualcosa.
A mio parere, da parecchi decenni siamo, purtroppo, in decadenza come valore di uomini e cose.

7) Quella italiana e quella americana sono due culture differenti.
E di quella americana preferisco il giusto valore che dà alle cose, come per quanto riguarda lo sport.
In Italia c'è troppo spesso la tendenza di andare oltre il lecito.

8) Tra America e Italia? 
Io preferisco vivere in America e tornare a morire in Italia.
Se avrò la fortuna di essere io a decidere...


Donatella


1) La cordialità delle persone. Lo sconosciuto che incrocia il tuo sguardo, al 90% ti saluta e, se ti conosce anche solo di vista, ti chiede "How are you?" ("Come stai?").
Il che mi fa sempre andare in crisi: insomma, devo rispondere solo "Fine, Thanks!" ("Bene, grazie!"), oppure devo anche  aggiungere "And you?" ("E tu?"), rischiando di portare avanti questi saluti preliminari all'infinito? 

1bis) Le persone che si fermano per strada per offrirti il loro aiuto se ti vedono in difficoltà; e quelle - donne ovviamente - che ti fanno i complimenti per come ti vesti o per dirti "I love your shoes!" ("Adoro le tue scarpe!") o la borsa, o la gonna... E sì che io non sono certo una che si sbatte molto per essere alla moda! 

2) Guidare, e ne avevo tanta paura! 
Nel bene, perché negli Usa tutti guidano in modo ordinato e rispettoso delle regole e dei limiti di velocità. 
Insomma, l'ambiente che ti circonda mentre sei alla guida ti costringe a non fare l'italiano "medio": quello che suona il clacson a chi si ferma con l'arancione, o quello che fa "il pelo" ai pedoni che attraversano la strada (che attraversano sempre rigorosamente sulle strisce). 
Anzi, qui è tutto un "prego, prima lei", "ma si figuri", "ma ci mancherebbe!"

Il lato negativo è che tutti messaggiano con il telefonino mentre guidano, cosa che in Florida, ovviamente, non è permesso. Ma anche se lo fosse, sarebbe lo stesso grave.

3) La comunicazione tra scuola e genitori: essendo qui le scuole enormi con migliaia di alunni, la comunicazione è organizzata e molto ben articolata

Impossibile non sapere cosa accade a scuola o cosa ha fatto o non ha fatto tuo/a figlio/a. Un genitore è praticamente accerchiato: mail, sms, messaggi vocali registrati, comunicazioni cartacee, "conference". Impossibile dire, poi,  "non lo sapevo"

4) Il cattivo gusto nell'arredamento: (è un mio giudizio personale, ovvio) e il pressapochismo e la velocità con cui fanno case e mobili (e altre cose). 
Per trovare quattro mobili da mettere in casa ho dovuto trovare un compromesso con la mia voglia di modernità. Oddio, magari i mobili moderni si trovano pure, ma a dei prezzi esagerati. Almeno in Italia se vuoi una schifezza di qualità ma moderna i posti dove andare ci sono. Qui è il tripudio del "classico", anzi, del finto classico, del vecchiume. Diciamo che ho ripiegato sul meno peggio. 
E i mobili sono fatti di cartone. Meglio non aprire troppo spesso i cassetti. 

Le case le tirano su in una settimana: qui, di fuori mattoni, e dentro in cartongesso. Il pavimento del primo piano è in legno tanto che quando mio figlio salta giù dal letto ho paura di ritrovarmelo direttamente in soggiorno! Pure il tetto è sempre in legno e io mi chiedo: testine, se questa è una zona di uragani, non ci arrivate che il tetto è il primo che viene spazzato via? Gli interni sono molto "alla buona" e mi sa che non usino "la bolla" per fare i muri dritti! 
Sulla moquette dappertutto non ho commenti da fare: solo parolacce.

5) La cura della città e il rispetto della cosa pubblica. Da quando sono qui non ho ancora visto una casa, un negozio, una chiesa, un "urgent care" (Guardia Medica, Pronto Soccorso), o qualsiasi altro edificio, con un pezzo di intonaco scrostato, una scritta fatta da vandali, una tegola rovinata... Nulla.
Nulla di nulla.
Tutto sembra sia sempre perennemente nuovo, nonostante le piogge torrenziali che, nella stagione delle piogge (in questo periodo, NdA) possono essere veramente intense, e che un minimo di usura dovrebbero causarla. 
Forse c'è qualche omino che passa di notte a pitturare e a mettere a nuovo!!

Ogni giorno rimango shoccata da qualcosa: direi al 98% positivamente, al 2% negativamente.

Marco








                                                                    
















1) Il fisco e la burocrazia in genere. Qui negli Usa è decisamente tutto molto più snello rispetto all'Italia.
2) La pulizia ovunque, e la voglia di mantenere tutto pulito.
3) Il rispetto per gli animali (almeno in senso generale, poi gli imbecilli sono ovunque), ma qui si va in galera davvero per un maltrattamento qualunque contro un animale.
4) Se sbagli, paghi, non lasciano correre: devi farti perdonare, in un modo o in un altro, a seconda del tipo di errore.
5) Tutti rispettano la legge, ad eccezione di quelle stradali (almeno qui in Nevada): "la rotonda, questa sconosciuta", tanto per dire; superarla indenni è quasi una lotteria.


Alessia 


  











1) La dimensione delle auto e, di conseguenza, delle corsie delle strade e dello spazio a disposizione per parcheggiare.

2) Le dimensioni dei piatti e le porzioni giganti al ristorante (nonché i bicchieri da mezzo litro!).


3) Lavatrici ed acqua che non lavano.


4) I pomodori (ma anche altra frutta verdura) che, nel 
  99% dei casi, non sanno di niente.


5) Gente che non ti conosce e ti saluta includendo il "come stai?". Che, se poi rispondi davvero e dici davvero come stai,  ti guarda preoccupata come se fossi pazza (qui a New Orleans però non succede, 
forse perchè siamo tutti un po' pazzi in partenza!).



Sabatino

                                  

1) L'efficienza dei servizi: bancari, postali, motorizzazione.  Qui vai in un'autoconcessionaria e dopo 3 ore esci con un veicolo nuovo targato. 

2) Gli ospedali, e non solo quelli privati: davvero tutta un'altra cosa.


3) Le persone anziane attive, che lavorano: e ho parlato con molti di loro e non lo fanno tanto per una questione di necessità. La trovo una cosa positiva perché in Italia, dopo i 40 anni, non trovi un lavoro nemmeno per aggiustare gli scaffali nei market! 


3) L'organizzazione della città e la pulizia nelle strade.


4) L'opportunità di poter comprare qualsiasi cosa a qualsiasi ora. 


5) Le banche sempre a disposizione del cliente.


6) Qui ci sono tante persone ricche sfondate ma sono talmente umili che sembrano comuni mortali. E questo mi fa impazzire.


7) Per le strade non vedi un venditore abusivo!


 Claudia

1) Il profumo di cibo fritto all'arrivo in aereoporto. Poi con il tempo ci si abitua, ma la prima volta fa proprio impressione. Sarà a causa del lungo viaggio, dell'arrivo ad un'ora in cui il corpo reclama già un letto e non da mangiare: ma quell'odore forte di fast food è veramente un pugno nello stomaco! 

2) Le donne per strada, durante l'intervallo per il pranzo con il tailleur, i collant color carne e le scarpe da ginnastica. 
Una donna italiana avrebbe la tuta nel cassetto della scrivania e se proprio sentisse la necessità di fare esercizio (ma io non ne ho mai viste), si cambierebbe, oppure uscirebbe sui tacchi da 10 cm. Della serie: mai rinunciare allo stile! (Che poi i collant color carne debbano essere dichiarati fuorilegge, quella è un'altra storia...).

2) Telefonare alle 10 di mattina o alle 4 di pomeriggio , chiedere di parlare con una persona e sentirsi rispondere: "E` assente per il lunch"

Ma a che ora mangiano qui?

3) Essere invitati da amici alle 5 di pomeriggio del venerdi per un "party" ed essere a casa alle 21
Si` e` vero che qui negli Stati Uniti le giornate iniziano prima, ma il giorno dopo è il fine settimana! 
Ah no, dimenticavo! C'e` la partita di football, soccer, baseball, l'allenamento di nuoto alle 7 di mattina del sabato.

4) La profusione di sorrisi e complimenti della gente per strada: un sorriso, incrociandosi, non si nega a nessuno.

Se poi si è vestiti bene, si ha un cane al guinzaglio o un bambino nel passeggino, giù profusione di "oooh", "aaah", "che bello!", "dove l'hai comprato??" (il vestito, non il cane o il bambino...).
Venendo io dal Piemonte, dove NESSUNO fa complimenti a persone che conosce - e tantomeno a chi non si conosce -, lo shock ed il sospetto ("Mi sorride? E che diavolo vuole questa/o da me??") sono in agguato.

Fabio
                                                               
1) Forte senso del dovere. A differenza di come siamo abituati noi italiani, in particolar modo al sud dove ho vissuto fino al mio trasferimento a New York, negli Usa la gente pensa innanzitutto al lavoro. Solo se resta del tempo, allora, ci si permette di riposarsi o divertirsi.
Ma, di certo non pensa neanche lontanamente a farsi una serata in discoteca e poi il giorno dopo dire: "Sono troppo stanco e non vado a lavoro!"...

2) Educazione. Tranne casi ovviamente sporadici, sia in macchina che a piedi o sulla metro resto scioccato dall'educazione di questo popolo: nei mezzi pubblici la gente si alza per lasciar posto a persone più anziane senza farselo dire nemmeno una volta; in auto rispettano tutti i segnali stradali a ti viene la precedenza quando ne hai diritto; c'è assoluto rispetto per i pedoni. 


3) Quello che non riesco proprio a capire e non mi dà pace, è l'aria condizionata: fuori ci sono 35° con il 90% di umidità e gli americani cosa fanno? Sparano l'aria gelida. Nei negozi sembra quasi essere sempre a Natale. Della serie: se non ti ammali ora, non ti ammali più.

La cosa più assurda è che sparano l'aria condizionata gelata "a tremila" anche quando fuori ci sono 13°... 

4) Sono invece restato deluso, molto deluso, dagli italo-americani. Evitateli: sono la peggior razza di migranti. Forse sarò stato sfortunato, ma io ho incontrato spesso solo sfruttatori e disonesti che non fanno mai nulla per nulla.

State certi: se vi faranno un favore, prima o poi, vi presenteranno il conto chiedendovi qualcosa in cambio. 
Se si tratta di lavoro, vi diranno, specialmente se sei italiano:  "E' dura? Ah, ora è niente: sapessi come andavano le cose 30 anni fa, quando sono arrivato io!".

5) Arriva il venerdì e il titolare, prima di andare via, ti da l'assegno nella busta insieme un foglio con la scritta "great job!" ("ottimo lavoro!")... 
Sono cose, queste, che ti fanno venire voglia di andare la lavoro!

Carla










1) La società multirazziale.

2) Si fidano della tua parola.


3) Sono competitivi.


4) Acquistano una casa per poi rivenderla dopo un mese senza averne un'altra a disposizione dove andare a vivere. Tanto ci sono gli hotel!


5) Persone anziane (anche 80enni!) che lavorano.


6) Ti può capitare che ti venga chiesta per strada una sigaretta e che in cambio ti venga offerto un dollaro.


7) I fumatori sono pochissimi.


8) I milioni di uova e di ali di pollo che si consumano ogni giorno.


9) Gli americani non sanno fare la cioccolata calda: provano con acqua e cacao!


10) Sono incredibilmente ospitali. Pensi sempre che ci sia qualcosa sotto...


11) La prima bottiglia di vino del giorno viene aperta alle 4 del pomeriggio.


12) Giovani e anziani praticano sport tutti i giorni, anche nel fine settimana.


13) Impazziscono per la pasta Alfredo. Ma chi cavolo era 'sto Alfredo??


14) Non rinunciano alla tradizione del barbecue nel weekend: sono lunghi quanto la notte di capodanno.


15) La Polizia: è sempre dietro l'angolo, anche se non la vedi.


16) Al ristorante, quando qualcosa non ti piace tanto e la avanzi quasi intera, il cameriere o la cameriera non ti chiedono solo se per caso non hai gradito qualcosa, ma ti chiedono se vuoi un altro piatto in cambio.

Gratis, ovvio.


© dario celli. Tutti i diritti sono riservati

martedì 16 settembre 2014

Il primo giorno di scuola di Ruby


Questa mattina li ho visti entrare festanti (un po' sì e un po' no, sinceramente...) nella scuola elementare che c'è proprio vicino a casa mia.

Ma, come accade in tutto il mondo, "proprio-proprio" contenta di andare per la prima volta a scuola la piccola Ruby non è che lo fosse davvero tanto, anche se sua mamma aveva cercato di "addolcirle" la pillola, dicendole che si sarebbe trovata bene, che avrebbe conosciuto tanti amici nuovi, che avrebbe imparato tante cose interessanti...
Sono però certo che la piccola Ruby, nella foto qui sopra, pensasse: ma perché diavolo non posso continuare a stare a casa a giocare con le mie bambole?
E perché non posso passare le mie ore di bambina in santa pace dondolandomi sull'altalena davanti a casa o giocando con le mie amichette a "campana" (che, tra l'altro, è uno dei giochi più antichi del mondo, misteriosamente diffusosi da più di duemila anni in tutto il pianeta, e che negli Usa si chiama "Hopscotch")? 

Uffaaaa...

Ma la mamma di Ruby, ovviamente, come tutte le mamme in questi primi giorni di scuola, non volle sentire ragioni.
La sua bambina, a scuola, doveva andare. 
Ma non solo...

Ah, non vi ho ancora rivelato che la storia che vi sto per raccontare si svolse nel 1960, e nel sud degli Stati Uniti d'America, a New Orleans, precisamente. 
E che Ruby - nata l'8 settembre del '54 a Tylertown, Mississippi - suo padre Abon e sua madre Lucille, erano afroamericani. Simpatizzanti, i due genitori, del Partito Democratico e del NAACP, l'Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore.

Negli Stati Uniti, come sapete bene, abolita nel 1865 la schiavitù (quando il Presidente Lincon fece introdurre il 13° emendamento alla Costituzione che formalmente chiudeva con quel periodo oscuro) il percorso verso la vera integrazione è stato assai lungo. 
Approvato quell'articolo della Costituzione, numerosi Stati del Sud degli Usa - in nome della loro autonomia legislativa - votarono infatti leggi locali che limitavano comunque i diritti della popolazione di origine africana. 
In questi Stati, per esempio, i singoli parlamenti avevano deciso che i neri potevano vivere sì "liberi, ma separati" dalla popolazione con la pelle bianca.

Poi, poco per volta, la svolta.

Nel 1948, su ricorso di uno studente, la Corte Suprema degli Stati Uniti decise che l'Università dell'Oklahoma non poteva rifiutare le ammissioni in base al colore della pelle.
E se è vero, poi, che il 17 maggio del 1954 ancora la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale la segregazione razziale anche nelle scuole pubbliche, come possiamo vedere dal titolo cubitale di un quotidiano di quel giorno...


... negli Usa, per un bel po' avrebbero continuato ad esistere "scuole per bianchi" e "scuole per neri"
Queste ultime, comunque, assai meno numerose.

E infatti, anche se la "separazione razziale" era teoricamente vietata per legge, alla "William Frantz Public School" di New Orleans, non si vedeva nemmeno un alunno dalla pelle nera: in quella scuola andavano solo bambini bianchi.
"Bene - pensò Lucille, la mamma di Ruby -: è venuto il momento di dire 'basta'!"Anche se Abon, il marito, qualche dubbio ce l'aveva, temendo conseguenze per la sua piccola principessa.
  
C'è un'altra cosa che rendeva tutto questo ancor più odioso: anche se a quel tempo nelle scuole americane le discriminazioni razziali erano state formalmente abolite, per frequentare una scuola fino ad allora riservata ai bianchi, i bambini afroamericani dovevano superare un esame di ammissione
Una sorta di esame di cultura generale.

Giuro.

(Toh! Ma guarda un po' da dove - taluni politici italiani - OGGI hanno copiato questa loro proposta...).


Sei famiglie afroamericane di New Orleans decisero però che non si poteva davvero andare più avanti così, e fecero fare ai loro sei figli l'odiosa prova di ammissione.
Che superarono tutti e sei. 

Ma alla fine cinque genitori gettarono la spugna: due decisero di lasciare ugualmente i loro bambini nella loro vecchia scuola "per neri" di New Orleans, mentre tre preferirono allontanarsi dai riflettori cambiando città.


Lasciando così la piccola Ruby sola.



Il NAACP chiarì subito alle autorità locali che non potevano minimamente pensare di non ottemperare ad un diritto garantito dalla legge e dalla Costituzione.

E così, accadde quello che vedete fissato in questa fotografia, una delle tante che ha fatto la Storia degli Stati Uniti d'America.


Questa foto un po' sgranata, immortala la piccola Ruby Neil Bridges mentre esce dalla "William Frantz Public School" alla fine del suo primo giorno di scuola.

Quello scricciolo era tenuta per mano dalla mamma, scortata dallo sceriffo, a sua volta spalleggiato - non si sa mai... - da tre suoi uomini. I quali, per evitare "problemi", oltre al distintivo portavano al braccio una bella (e ben visibile!) fascia di riconoscimento.
Il primo giorno Ruby Bridges lo passò interamente in Presidenza, protetta dalla mamma e dagli uomini dello sceriffo. Perché aule e corridoi erano invase da genitori, bambini (e insegnanti) bianchi inferociti ed urlanti.

Il secondo giorno andò meglio. 
Niente urla e niente imprecazioni: né di bambini, né di genitori, né di insegnanti isterici.
Ruby, infatti, si trovò a frequentare una scuola deserta: già, perché i genitori - tutti bianchi - dei bambini della "William Frantz Public School" di New Orleans ritirarono (tutti!) i loro figli da scuola.
Avete capito bene: la piccola Ruby Bridges, con il suo arrivo a scuola, si trovò ad essere l'unica alunna della scuola.

Non solo: anche tutti (tutti!) gli insegnanti, da quel giorno, si rifiutarono di entrare alla "William Frantz".

O meglio: tutti meno miss Barbara Henry.
Di lei sono riuscito a trovare solo questa fotografia, fatta qualche anno fa.

Nel 1960 miss Henry era una giovane maestra che aveva viaggiato e insegnato in Europa. In particolare nelle scuole interne alle basi americane, quelle per figli dei militari: scuole che erano "integrate" per legge.

Ma non ci volle molto, alla voce, di spargersi: e non ci volle molto perché una folla inferocita si scatenasse ogni giorno anche attorno al passaggio di miss Henry - anch'essa scortata dalla polizia - verso la scuola.

Dunque, in quella scuola, oltre a Preside e personale non insegnante, c'erano solo due persone: miss Henry e la sua allieva Ruby.
"Per oltre un anno ho insegnato come se avessi avuto di fronte una classe intera", ha ricordato spesso negli anni successivi la maestra.
Con Ruby, dolcissima, che ricorda ancora oggi cosa aveva pensato in quel primo anno di scuola: "Prima di allora non avevo mai visto un insegnante bianco e miss Henry mi sembrò subito la maestra più bella che io avrei mai potuto avere!!".

Il primo giorno aveva perfino affrontato con infantile fantasia quella folla inferocita e urlante: "Sembrava un po' come se fosse stato 'Mardì Gras', il martedì grasso, quando a New Orleans tutti ridono, festeggiano e urlano. Ogni tanto quella gente buttava verso di noi qualcosa, ma non ci hanno mai centrato!".

E così, giorno dopo giorno, la scena era sempre la stessa...   
Il passaggio per strada di Ruby e della sua maestra era costantemente costellato da manifestanti bianchi inferociti ("L'integrazione è peccato mortale", si legge nel cartello della foto di sopra), mentre la piccola Ruby veniva sempre accompagnata e portata a casa dallo sceriffo e dai suoi uomini, con le aule della scuola che continuavano a rimanere deserte.








Il vice sceriffo Charles Burks era uno di loro e in seguito, ricordando quei momenti, disse che la piccola Ruby fu incredibilmente coraggiosa: "Non ha mai pianto né piagnucolato. Sfilava con noi davanti a quella folla come fosse stata un piccolo soldato, e tutti noi eravamo stupiti e molto orgogliosi del suo incredibile coraggio".

Già, anche perché, nel frattempo, una donna bianca giurò che prima o poi l'avrebbe avvelenata: e così gli agenti della sicurezza inviati poi personalmente dal Presidente degli Stati Uniti Eisenhower, ebbero anche la consegna di controllare che Ruby mangiasse esclusivamente cibo portato da casa.

Poi accadde che un'altra donna bianca si piazzò davanti alla scuola issando una piccola bara da morto con dentro una bambola nera di pezza: e questo sì che spaventò la piccola Ruby, "più delle cose brutte che le persone urlavano ogni giorno contro di noi".
E allora Ruby, su suggerimento della madre, il percorso fra casa e scuola lo passò pregando. 
Con le sue preghiere, disse, che facevano sparire le urla.
Uno psicanalista infantile, Robert Coles, per un anno offrì alla famiglia Bridge la sua consulenza gratuita, famiglia che però pagò cara la decisione di mandare la loro figlia in quella scuola di bianchi.
Il padre di Ruby dovette, infatti, chiudere il suo piccolo negozio di alimentari, mentre ai nonni, mezzadri nel lontano Mississippi, fu annullato il contratto che avevano con i proprietari terrieri.

Poi...

Poi, poco per volta, qualcosa iniziò a cambiare: davanti al 3811 di North Galvez St di New Orleans, l'indirizzo della scuola, un giorno si presentò Pam Foreman Testroet, la prima bambina bianca che ruppe quel boicottaggio, qui nella foto - tutta contenta di questa improvvisa notorietà - accompagnata dal padre Lloyd, pastore di una Chiesa locale, e da un giornalista. 
E fu così che dopo di lei, nelle settimane successive, iniziarono a presentarsi a scuola altri bambini bianchi, senza però che frequentassero la classe di Ruby. 
E fu così che un vicino di casa offrì ad Abon Bridges un lavoro, e fu così che l'auto dei federali con la piccola Ruby, venne poi a sua volta scortata da altre vetture di cittadini che intendevano manifestare così la loro solidarietà.


Conoscere questi pezzi di storia degli Stati Uniti mi convince sempre più di quanti passi in avanti sia in grado di fare questo Paese.
Nemmeno 20 anni dopo dai fatti che ho raccontato, nel 1977, per la prima volta i cittadini di New Orleans elessero nientemeno che un sindaco afro-americano: Morial Ernest Nathan.
E da allora, per 27 anni, uno dopo l'altro si susseguirono sempre sindaci proveniente dalla comunità nera. 

Oggi, Ruby Bridges è sposata con Malcolm Hall e ha quattro figli. 
E' presidente di una Fondazione a lei intitolata, nata nel 1999 per promuovere "i valori della tolleranza, del rispetto e l'apprezzamento di tutte le differenze", e quando ha tempo libero viaggia per gli Stati Uniti visitando le scuole per raccontare la sua esperienza di bambina.

Di bambina che ha dovuto crescere in fretta.


In questi anni ha ricevuto tre lauree "honoris causa", e dal 2006 una scuola elementare di Alameda, in California (che vediamo nella foto qui sotto), è già a lei intitolata.
(Ruby Bridges Elementary School, Alameda, California)
L'8 gennaio 2001, ha ricevuto dalle mani del Presidente Bill Clinton la "Medaglia Presidenziale", mentre dieci anni dopo è nuovamente sobbalzata dalla sedia quando ha ricevuto un altro invito alla Casa Bianca, questa volta dal "suo" Presidente preferito, Barack Hussein Obama.
E così eccoli, Ruby e Barack nel luglio 2011 davanti al celebre quadro dipinto nel 1964 dal pittore e illustratore Norman Rockwell, dopo che tutti gli Usa conobbero il coraggio di quella bambina di New Orleans.
Quadro oggi conservato nelle stanze della White House.
Un quadro "realistico", dove si leggono sui muri gli insulti a lei rivolti, dove si vedono spruzzi di sangue d'animale che lordavano i muri al suo passaggio.
E dove si vede lei mentre va a scuola con quaderni e righello in mano: uno scricciolo, impassibile e fiera, fra gli uomini dello sceriffo. 



Un incontro emozionante, ricorda lei.
Come emozionato fu il Presidente Obama, che volle ascoltare direttamente dalla voce della protagonista la storia della piccola Ruby, che aveva sentito tante volte.

E la ringraziò, Obama; ringraziò Ruby Neil Bridges: "Penso sia giusto dire che se non fosse stato per voi ragazzi di allora e per ciò che avete fatto e vissuto sulla vostra pelle, io non potrei essere qui. 
E noi non staremmo guardando questo quadro.
Qui, insieme.
Alla Casa Bianca".



Avrei potuto intitolarla "La vendetta di Ruby", questa storia.
Perché quella piccola bambina afroamericana insultata, aggredita, che per lungo tempo ha vissuto nella paura, ora è una persona simbolo, una donna importante, sulla quale poi sarebbero stati scritti innumerevoli articoli di giornale, pagine sui libri di scuola, sulla cui storia venne fatto anche un film.
E sulla quale io, che non sono nessuno, ho scritto la storia su un blog italiano.

Ah, l'avessero saputo quelle poverette che per mesi, ogni giorno, la insultarono per strada...



Lei non ci pensa su molto. 
Quegli anni, ormai, sono passati. E certamente molte di quelle donne hanno poi capito che la Storia non andava, non poteva andare, da quella parte.
Anzi, ne è certa: molte di quelle donne, poi, hanno votato i numerosi sindaci afroamericani di New Orleans e magari poi anche Obama.

E se la ride oggi, pensando a questo, davanti alla sua scuola di allora...



© dario celli. Tutti i diritti sono riservati