PERSONE CHE HANNO LETTO O CURIOSATO

mercoledì 16 gennaio 2013

Hotel America

Ogni anno gli Stati Uniti d'America - oltre al mezzo milione di persone che vi emigrano con un visto di lavoro - accolgono 80 mila rifugiati provenienti dai posti più disperati del mondo.
Arrivano principalmente da Paesi asiatici o africani, teatro di guerre e genocidi, perseguitati per motivi politici, di religione o di razza. Persone che vivono nei campi profughi dell'Unhcr (l'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati) e che dopo una istruttoria che dura parecchi mesi vanno incontro alla loro nuova vita. 

Una nuova vita organizzata e preparata meticolosamente dal personale di un'altra agenzia Onu, la Iom - l'International Organization for Migration - che ha il compito di scegliere la loro destinazione ottimale, per esempio una cittadina dove già esiste una tranquilla comunità di quella nazionalità o di quella etnia. Non solo: ai profughi (anzi, agli ex profughi) viene anche trovato un lavoro, o garantito un sussidio o assistenza medica per i primi otto mesi. O per cinque anni, nel caso di nuclei familiari. 

Mario Calabresi raccontava di queste persone, nel reportage che pubblicò il 18 marzo 2007, quando era corrispondente da Washington per La Repubblica.

Non mi capita spesso di leggere più volte lo stesso articolo e provare sempre emozione. Anzi, di provarne ogni volta di più, se possibile.

Quando Mario Calabresi lo scrisse su Repubblica, lo persi: l'articolo lo lessi, invece, nel suo straordinario libro di tre anni dopo, "La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi".
Avete presente quando uno si dice "Cavoli, ma perché questo non l'ho scritto io??". Ecco, dopo aver letto quel racconto di Mario Calabresi pensai proprio quello.


Sono cinque gli aeroporti americani dove arriva questo carico di persone fino a qualche settimana prima senza speranza: arrivano al Jfk di New York e al vicino aeroporto di Newark. Ma anche a Chicago, a Miami e a Los Angeles.

Lì, al "Days Inn Hotel" di Newark, nel New Jersey, alle porte di New York, Mario Calabresi fu portato da Gabriele Stabile, fotografo italiano che lavora per il New York Times. E ha scritto ciò che leggerete.


L'articolo è dunque di Mario Calabresi.
Le eccezionali fotografie sono invece  state scattate dal 2007 al 2012 da Gabriele Stabile, e sono state pubblicate dall'Internazionale, nel numero in edicola in questi giorni.


Buoni brividi a voi...


NEWARK (New Jersey) - La prima visione dell'America, quella che ricorderanno per sempre, comincia con un parcheggio, si allarga sull'autostrada che in meno di mezz'ora potrebbe condurli a Manhattan e si chiude con la ciminiera, illuminata ogni notte, dello stabilimento della birra Budwaiser. 
©Gabriele Stabile-Internazionale


Il sapore invece è di un contenitore di plastica colmo di riso e pollo, l'unico menù che ha messo d'accordo tutte le religioni, accompagnato da una gigantesca coca cola piena di ghiaccio. L'odore è di moquette e disinfettante. Il rumore, da subito, è quello delle pubblicità televisive. Una domanda li martella nella prima notte della loro nuova vita: "Avete comprato il tagliando di Megamillion? Sarete voi questa sera i vincitori dei 375 milioni di dollari in palio?".

Non capiscono o pensano di aver compreso male. Sanno però di aver vinto il biglietto per gli Stati Uniti: lo tengono stretto.

Quest'anno ne sono stati estratti 70mila e loro possiedono quelli con il numero di serie poco successivo a 12mila. E' un foglietto che sta nel palmo di una mano, sopra c'è stampigliata la dicitura "rifugiato". 



©Gabriele Stabile-Internazionale



L'Hotel dei Rifugiati è un palazzone di otto piani e 191 stanze, fa parte della catena Days Inn. Ogni notte arrivano che è già buio e occupano quasi interamente il quarto piano. Quindici, venti stanze, dipende dal carico degli aerei.

In questa Ellis Island del Ventunesimo secolo, sbarcano uomini, donne e bambini da tutto il mondo. Fuggono dalla guerra, dalle persecuzioni politiche e religiose, dalle pulizie etniche. 

L'America, la stessa che costruisce muri alle frontiere e prende le impronte digitali a chi varca i suoi confini, continua ad accoglierli con una generosità che non ha paragoni. E' un flusso costante, duecento persone al giorno che varcano uno dei cinque ingressi verso una nuova esistenza: Newark, Miami, Los Angeles, Chicago e New York.

Nell'istante in cui si aprono le porte automatiche un vento gelato fa volare gli scialli di cotone delle donne del Burundi, i bambini prima ridono poi si spaventano. Bufera a dieci sotto zero. Gli iraniani respirano a fondo: "La neve, come a Teheran". 

©Gabriele Stabile-Internazionale

Questo istante, questa notte in una stanza anonima, il pollo con il riso, chiudono una vita di paure, persecuzioni, fughe, campi profughi, e ne aprono una nuova in luoghi sconosciuti, incerti, La nuova esistenza americana. Un anno da rifugiati, cinque con una carta verde e poi una vita intera da cittadini a stelle e strisce. 


"Volo TWA 881 decollato ad Atene, 13 febbraio 1980. Non ho dimenticato niente di quella notte. Ero fuggito da solo dall'Etiopia il 26 agosto del 1974, alla vigilia del colpo di Stato di Menghistu. Quando arrivai a New York era buio, in albergo c'era un ricevimento con una grande orchestra, mi fecero sedere ad un tavolo del ristorante, arrivava forte la musica, chiusi gli occhi e immaginai che era il benvenuto per me". Omar Nur oggi è il responsabile dei profughi che arrivano al Liberty Airport nel New Jersey, fa questo lavoro da vent'anni, li accoglie all'immigration, li aiuta a passare i controlli, li accompagna in albergo, gli spiega come funziona la chiave elettronica per aprire la porta, con cui giocheranno fino a notte fonda i bambini somali, la vasca da bagno, il televisore. Con garbo mostra che il letto ha lenzuola e coperte, che ci si deve infilare sotto. Questo accade con gli africani che arrivano dal Darfur, dal Congo, dalle mille guerre dimenticate. Con gli ucraini, gli iraniani, gli etiopi discute invece della macchinetta che distribuisce le sigarette, dei canali satellitari e della puntualità dei voli del mattino.
©Gabriele Stabile-Internazionale
All'alba li va a svegliare e li accompagna all'imbarco verso la destinazione finale: uno di quei quattrocento luoghi in cui l'America ha deciso di accoglierli.

In questo breve tragitto tra l'ufficio immigrazione e il copriletto a fiori uguale in ogni stanza, Omar ha visto sfilare i drammi del mondo negli ultimi vent'anni: ad un certo punto erano tutti indocinesi, "boat people", i voli arrivavano dall'Asia via Francoforte, poi erano polacchi e l'eco di Solidarnosc e Jaruzelsky riempiva questo parcheggio. Finita la guerra fredda il mondo si è sbriciolato, e ogni sera si ascoltano dieci dialetti diversi, storie complicate da comprendere. Questo è l'anno dei somali, degli iraniani e di quelle migliaia di birmani che da anni vivono parcheggiati nei campi al confine con la Thailandia. Sulla ruota americana sono usciti i loro biglietti, pochissimi i premiati se si pensa che a concorrere sono oltre nove mioni di persone in tutto il mondo, i rifugiati scappati dalle persecuzioni o dal terrore.

Omar è solo uno di quelle cinquemila persone che rendono possibili questi immensi spostamenti, che li gestiscono, che cercano di dare un ordine al caos, partendo dall'assitenza umanitaria. Sui loro giubbini blu è stampata una grande scritta: IOM, organizzazione internazionale per le migrazioni.

E IOM c'è scritto sul rettangolino autoadesivo che hanno tenuto sulla maglietta per tutto il viaggio. Emile e Justine vengono dal Burundi, sono saliti veloci, i primi ad arrivare in camera. Non avevano bagagli. Tutto quello che possiedono è appoggiato sul letto in una borsa di plastica con il disegno dell'uccellino Titti vestito da sciatore. La aprono, contiene solo un paio di scarpe e i documenti. Domani andranno a Boise, nell'Idaho. Verso il confine con l'Oregon, oltre le montagne rocciose. Stanno in silenzio, non hanno voglia di raccontare la loro storia, non ha più importanza, adesso bisogna stare concentrati sul futuro.

Gli Omran sono sudanesi, anzi sauditi, ma si sentono egiziani: "Come ci troveremo a Salt Lake City?", la capitale dello Utah dei mormoni.
A parlare è sempre Omar Idris, il figlio maggiore: "No, il capofamiglia, perché sono io che mi occupo di loro tre dopo che mio padre è scomparso alla frontiera cercando di tornare in Sudan.






Veniamo dalla Nuba Mountains, ma io e le mie sorelle siamo nati in un campo profughi in Arabia Saudita dove i nostri genitori erano fuggiti. Però siamo cresciuti al Cairo e lì abbiamo studiato". La loro storia è piena di sorprese, la madre, che non ci tiene a dirci l'età, trovò lavoro come badante nella grande casa di un'anziana signora egiziana: "Accettò di ospitarci tutti e quattro, e quando morì continuammo a vivere lì, finché non si realizzò il sogno di venire negli Stati Uniti". Omran sogna di diventare avvocato, vorrebbe una moglie ma non può ancora: "Mi devo prendere cura di loro - sospira abbracciando le sorelle - la vita mi ha insegnato questo". 

Hanno sognato per anni la nuova vita. I più giovani scommettono sul loro futuro, gli altri puntano sui figli. "Saranno americani, qui potranno studiare": i genitori di religione Baha'i, una minoranza iraniana a cui non è permesso accedere alle università né ad incarichi statali, ripetono questa frase come un mantra. 
©Gabriele Stabile-Internazionale
Raccontano vessazioni, minacce, arresti e ora sperano: "Qui - afferma Houman, crecando conferme alle sue parole - non si fanno discriminazioni tra le persone, le religioni e i colori della pelle, vero? Questo sappiamo dell'America e questo speriamo. E' molto difficile immaginare quale sarà il nostro futuro". Insieme alla moglie Noushein è partito dieci mesi fa da Teheran in treno, verso la Turchia. Gli iraniani li hanno lasciati andare volentieri: "Con Ahmadinejad la situazione è peggiorata: arresti, licenziamenti e poi nostro figlio, che ha solo 4 anni, non avrebbe mai potuto studiare. Ora andremo a San Diego, dove vive già mia madre da tre anni e dove c'è una nostra comunità". Hanno accettato di essere fotografati, sono stati gli unici, le altre famiglie non hanno voluto, troppa paura di rappresaglie su chi è rimasto. 


Anche i più giovani rifiutano uno scatto: Haji ci mostra solo la stella a nove punte che tiene sotto la camicia, poi vuole che sia ritratto il medaglione con la forma calligrafica della parola araba Bahà' che significa "gloria". "Io sono qui a causa di questo, fotografatelo al posto della mia faccia, non voglio corerre rischi". Ha solo 21 anni, viene da Tabriz, la porta dell'Iran verso l'Occidente, e faceva il muratore. Ora Haji andrà a Los Angeles e sogna senza freni: "Voglio fare il cantante o l'attore, voglio diventare famoso, e anche per questo non voglio foto, se domani ne circolasse una con la faccia da rifugiato rovinerebbe la mia immagine". Yashar Hosseini, che ha la stessa età e arriva da Isfahan, ascolta attento e un po' preoccupato: "Io vorrei fare il regista ma mi hanno destinato ad Atlanta in Georgia, ho paura che non sia il posto giusto, meglio Los Angeles, dovrò muovermi". Gli chiediamo del cinema iraniano, di Kiarostami e Makhmalbaf, mette le braccia avanti, scuote la testa: "No, no, non mi piace quel genere lì, non mi piace il cinema intelligente, impegnato, io vorrei fare film di intrattenimento".

Vestono alla moda, hanno scarpe da tennis, anfibi, le ragazze gli stivali e i jeans con il risvolto. Capelli curati, basette e sui carrelli all'uscita dall'aeroporto un'infinità di valige. Si confondono tra i turisti.

Il numero di bagagli sottolinea la prima differenza visibile tra i rifugiati. Tutto quello che possiedono è qui con loro: si oscilla da una busta a cinque valigioni. La famiglia Sharif, sono in nove senza padre, è scappata dalla Somalia quindici anni fa, ora è preoccupata di trovare del nastro adesivo per riparare due borse che hanno ceduto di schianto: "Queste non arriveranno mai in Ohio". Bisogna caricarle sull'autobus, e qui si produce un primo scontro di culture: i due fratelli più grandi salgono per primi e si siedono in fondo vicino ai finestrini a guardare la madre e le sorelle che arrancano sotto il peso. Dopo parecchi minuti di fatica, Omar, la nostra e la loro guida, perde la pazienza, sale e urla: "Avete capito male, qui siete in America, qui non ci si comporta così, qui essere uomini significa lavorare, scendete subito ad aiutarle". Lo guardano e sorridono e non si muovono.

Rifiuteranno anche la foto, roba adatta ai cinque più piccoli, tre femmine e due maschi. Ma quando se ne saranno andati a dormire, per gli altri scatta la libertà: parlano ridono, Umal Khayer si leva il foulard azzurro che le copre i capelli si mette scalza e comincia a raccontarci di non ricordare più nulla del suo Paese:

"Scappammo da Mogadiscio che io avevo tre anni, vagammo tra i campi profughi in Etiopia, poi siamo stati a Gibuti, poi ancora in Etiopia. Ora raggiungiamo la nostra sorella più grande a Columbus e forse finalmente potremmo fermarci. Sono quindici anni che non abbiamo una casa". I suoi fratelli sono già rapiti dalla televisione, non badano neppure al carrello che porta i contenitori con la cena, impegnati come sono a disputarsi il telecomando. E poi hanno già mangiato due volte sull'aereo, tre pasti in un solo giorno è qualcosa a cui non sono abituati.

©Gabriele Stabile-Internazionale

Nella hall ci sono riviste che nessuno compra, Sport Illustrated, Vogue e una copia di Playboy di novembre. Due giovani turisti giapponesi, con le Nike multicolori e i capelli tenuti in alto dal gel, non si accorgono neppure della famiglia del Burundi che li sfiora. Sono in sei, mamma e papà hanno 28 anni, dei quattro figli uno ha solo nove mesi. Indossano tutti la stessa felpa con lo scollo a "v" e quattro lettere "USRP": "United States Refugee Program". Non hanno valigie, solo una busta, che racchiude le loro vite. I volti sono francobolli, incollati vicino all'indirizzo di destinazione, per non perdersi in un viaggio lunghissimo cominciato nella bolgia dei rifugiati in Tanzania, per restare uniti fino alla destinazione finale, Dayton in Ohio.

Jean-luc, detto Lik, questa sera ha solo sonno, non piange più come nel francobollo. I fratelli sono sfiniti dalle emozioni, non erano mai stati su un aereo e neppure su una scala mobile. Il padre, Jean-claude, parla a voce bassa, in francese, dice che sono scappati nel 2001 quando Meshack aveva due anni e Samuel era appena nato: "Volevano uccidermi, allora ho preso Pascazia e di notte siamo fuggiti. Mia madre era Hutu, mio padre Tutsi, sono morti tutti e due: prima hanno ucciso lui, il turno di lei è arrivato un anno dopo. Io non ero niente, stavo a metà, non appartenevo a nessuno. Ma una sera mi è arrivata la voce che correva nel villaggio: è il tuo turno". Così sono partiti con il buio verso la Tanzania. Non hanno più nulla, neanche una valigia.
"Abbiamo la vita - ci spiazza - e adesso abbiamo anche la possibilità di viverla".

Mentre sto per uscire dalla loro stanza, timidamente mi richiama.
E' imbarazzato: "Avrei una domanda, se per favore mi può aiutare.
Vorrei capire". 

Gli dico di non farsi scrupoli, qualunque cosa.
"Ecco, vorrei sapere una cosa, ce lo siamo chiesti tutti per mesi al campo profughi: che cosa ha detto Materazzi a Zidane?".



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